Il futuro dell’Italia risiede nel suo capitale umano: l’importanza spesso trascurata delle case e dei lavoratori domestici
Giuseppe Russo (Direttore Centro Einaudi, Torino)
Nel panorama della statistica demografica, emerge sempre più chiaramente che il futuro di un paese non è solamente legato al suo capitale fisico o finanziario, ma piuttosto al suo capitale umano. Quest’ultimo, sebbene richieda tempo per formarsi, una volta completato e istruito, si rivela essere estremamente mobile. È nelle famiglie che questo capitale prende forma e si sviluppa, poiché è lì che le persone nascono, crescono, apprendono principi fondamentali come l’educazione civica e si istruiscono tramite l’interazione tra casa e scuola.
Le case, pertanto, rivestono un ruolo di cruciale importanza in questo processo di crescita e formazione del capitale umano. Più di semplici strutture fisiche, le case sono ambienti in cui le persone sono al centro, responsabili dei processi educativi e formativi. È all’interno di queste strutture che sempre più lavoratori domestici si dedicano ai bisogni essenziali delle famiglie, offrendo un supporto prezioso in un contesto in cui le famiglie sono costantemente sotto pressione tra i compiti di cura, gli impegni lavorativi e la ricerca di progresso.
Ma quanto sono realmente valorizzati i lavoratori domestici e i loro datori di lavoro? Troppo spesso, queste figure cruciali per la società vengono trascurate e poco considerate. Mentre ci troviamo a interrogarci su cosa non funzioni più nella demografia italiana, sembra che le questioni legate alle case e ai lavoratori domestici siano spesso lasciate in secondo piano, forse meno curate rispetto ad altri paesi.
Riflettere sull’importanza delle case e dei lavoratori domestici non solo come componenti fondamentali della crescita del capitale umano, ma anche come pilastri della società, potrebbe aprirci a nuove prospettive e soluzioni per affrontare le sfide demografiche del nostro paese in modo più completo e inclusivo.
Le statistiche dimostrano plasticamente quale sia la condizione demografica italiana. Ci facciamo sostenere nel nostro ragionamento da una piramide della vita. L’abbiamo distesa considerando l’asse delle X dedicato alle età degli italiani e l’asse delle Y dedicato alle persone che si contano nelle classi di età annuali. Ebbene, i risultati fanno riflettere. L’intera popolazione italiana (siamo nel 2022 e i dati sono dell’Istat) è composta di 58,9 milioni di abitanti. Di questi, nella zona delle forze di lavoro potenziali, ossia nelle età comprese tra i 19 anni, quando si matura, statisticamente, il primo rapporto di lavoro, fino ai 67 anni (attuale età di messa a riposto) si trovano 37,3 milioni di persone. Sappiamo anche che di questi, circa 22 milioni sono occupati, gli altri non lo sono o per scelta o perché non trovano un’occupazione o perché non hanno le caratteristiche richieste dai datori di lavoro. Si può sostenere che la società e l’economia italiana siano sostenute da queste 37,3 milioni di persone. Fatta eccezione per gli invalidi, anche coloro che non lavorano eseguono delle attività, talvolta di lavoro informale, talvolta di lavoro per sé stessi e i propri cari. Questo particolare assetto non reggerà ancora per molto. Per mantenere un adeguato Pil, che vuol dire mantenere anche un adeguato livello di servizi pubblici e un adeguato livello di trasferimenti, pari a quello cui siamo abituati, bisogna considerare su quante persone potremo contare nei prossimi 19 anni. Sì, perché se servono 19 anni per ottenere il primo lavoro, sappiamo già contare quante persone nei prossimi 19 anni potenzialmente potrebbero desiderarne uno. Si tratta dei nati negli ultimi 19 anni, inclusa una certa aliquota di stranieri immigrati in queste fasce di età (non molti). Parliamo nel complesso di 9,6 milioni di persone. Tutto bene? Non troppo, perché se cerchiamo di capire quanti usciranno dall’età lavorativa nei prossimi 19 anni, cosa che è possibile fare, contando all’indietro coloro che hanno 67 meno 1 anno, 67 meno 2, fino a 67 -19 anni, ebbene troviamo la somma di 16,9 milioni di persone, il che significa che per ogni fuoriuscito dalle forze di lavoro potenziali saranno disponibile 0,56 potenziali nuovi impegnati nelle forze di lavoro. Non occorre grande capacità di interpretazione dei dati per riconoscere quale potrebbe essere il rischio. In assenza di un adeguato capitale umano impiegato nell’economia, anche la proprietà delle imprese potrebbe decidere, per così dire, di fare le valigie e cercare altri luoghi dove operare. Ma un tale assottigliamento delle forze lavoro potenziali, che è certo e sicuro nei prossimi 19 anni (perché stiamo facendo calcoli con teste di individui che sono tutti già nati) potrebbe mettere in crisi l’economia reale, la finanza pubblica, e anche gli istituti previdenziali. Si può fare qualcosa? Forse sì, se avessimo una politica migratoria capace di individuare i flussi anziché vederli passare. Ma certo un rimedio, parziale, a questa situazione sarà costituito da una maggiore partecipazione delle forze lavoro potenziali al lavoro effettivo. Diciamo che, in presenza di una tecnologia avanzata e di infrastrutture progredite, un tasso di partecipazione delle forze lavoro potenziali all’occupazione effettiva dell’80% potrebbe limitare i danni. Ma adesso siamo al 59 per cento appena, con grande variabilità tra nord e sud e tra uomini e donne. Per rendere possibile una tale partecipazione al lavoro occorre aumentare l’istruzione e la formazione degli italiani, e poi bisognerà pensare anche a chi si occuperà delle loro case, se almeno la metà di coloro che oggi si curano solo delle case e della famiglia dovranno occupare un posto di lavoro, sia esso dipendente o indipendente. Si avvertirà la necessità di disporre di più lavoratori domestici di quelli di oggi. Si chiederà che siano più istruiti e ben formati anche essi. E si avvertirà la necessità che la loro assunzione non sia considerata come un servizio di lusso appannaggio di poche famiglie privilegiate, e perché ciò accada la strada da fare è ancora lunga. Il lavoro domestico accessibile e diffuso non sarà tanto diverso da un’automobile o un bene di valore. Dovrà essere scelto con cura e cura andrà messa nella gestione di lungo termine dei rapporti di lavoro, che dovrebbero emergere alla luce del sole, assai più di oggi. Ecco: una maturazione del settore del lavoro domestico, non più ancillare ma professionale, pure accessibile, sarà fondamentale per evitare le conseguenze peggiori del declino demografico. Se poi con un livello di servizi domestici adeguati il tasso di natalità dovesse tornare a salire (le ultime generazioni contano meno di 400 mila nati per anno e si confrontano con generazioni di 722 mila che passano invece dall’età del lavoro a quella del riposo), avremmo anche un piccolo risultato in più, utile non tanto il futuro imminente, ma per la seconda metà del secolo in corso. I tempi della demografia sono questi, e trascorrono inesorabilmente.